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Sostare nell´ignoto: Riflessioni psicoanalitiche sul coronavirus.

Questo scritto rappresenta una riflessione, una ricerca di pensabilità di fronte alla drammatica esperienza della pandemia.


 
Valentina Gentile

Psicologo-Psicoanalista Individuale e di Gruppo; Consigliera CRPG di Catania; consulente forense.

 

 

 









Il presente lavoro è stato proposto nel 2020 durante la tavola rotonda che si è tenuta presso l’Istituto Italiano di Psicoanalisi di Gruppo (I.I.P.G.) della sede di Catania.

«Io so che […] debbo accecarmi artificialmente per poter dirigere tutta la luce su un punto oscuro.» (Freud S., 1916)

L’emergenza sanitaria del Covid-19 ha portato notevoli cambiamenti anche nel setting terapeutico in età evolutiva, durante la quarantena ci siamo incontrati in un altrove, non sempre ben definito, ma alle volte co(n)-fusivo. Basti pensare ai personaggi precedentemente solo narrati, disegnati, sognati o messi in scena attraverso il gioco, ma che adesso prendono forma nel reale, intrudendo alle volte nel campo.

Durante i primi giorni di quarantena sembrava di essere posti di fronte la Sfinge che pone domande e interroga sulla natura umana. Gli enigmi erano molteplici ed è stato difficile navigare in mari prima d’ora mai esplorati, con non poca fatica abbiamo cercato di pensare sotto bombardamento emotivo.

Il lavoro terapeutico è stato caratterizzato dal sostare nell’incertezza, “attraverso i misteri e i dubbi, senza lasciarsi andare ad una agitata ricerca di fatti e ragioni”(Bion, 1970). Così Bion nel 1970 in Attenzione ed interpretazione, riprende il concetto di capacità negativa, proposto dal poeta romantico John Keats nel 1817.

Bion (1970) afferma che l’analista deve imparare ad osservare, ascoltare, cercare di capire ciò che il paziente gli sta comunicando, ma soprattutto dovrebbe anche imparare a “non capire”, nel senso che è questo non capire che permette all’analista di non dare prematuramente forma a ciò che sta evolvendo nel campo analitico (Neri, 2009).

Pertanto, quando si parla di capacità, si intende una qualità, uno spazio, uno stato potenziale; negativa perché non si traduce in azione, ma al contrario, nell’astenersi dal fare.

Come terapeuta che lavora anche con bambini, adolescenti e le loro famiglie, mi sono interrogata sul come poter continuare il processo terapeutico. Sapendo che per alcuni piccoli sarebbe stato molto difficile poter proporre la modalità online. Per me è stata un’esperienza pionieristica, poiché non esistono molti lavori sull’argomento (.Scharff, J. S., 2013; Lemma, A., & Caparrotta, L. 2013). Nonostante ciò, ho cercato di attenermi al setting proposto precedentemente, cercando di offrire una continuità delle cure, tentando di trovare nuove pensabilità ed apprendere dall’esperienza.

Pertanto, gli incontri si mantenevano costanti settimanalmente, allo stesso giorno e allo stesso orario, tuttavia, il setting ha subito dei cambiamenti bruschi e repentini, soprattutto i più piccoli ne hanno sentito la violenza, l’ombra dello tsunami che faceva rivivere prepotentemente traumi relazionali, dovuti ad esperienze di perdita precoce.

Lavorare con i bambini significa anche prendersi cura dei loro genitori, in questo periodo in particolar modo. Infatti, i caregiver spesso si sentivano ostaggio dei loro figli:

“Dott.ssa non posso fare niente ci sono richieste continue che non riesco a gestire, sono stanca anche io”.

I genitori lamentavano la difficoltà di trovare spazi propri, si sono sentiti privi di contenimento, sembra essere venuto meno quel contenitore che era offerto anche dalle strutture esterne: come la scuola o i centri sportivi.

Si sono sentiti catapultati in ruoli spesso difficili da gestire, che creava loro confusione poiché tutto sembrava co-fuso. Il genitore era l’insegnante, il pedagogista, l’allenatore, il cuoco. Questo sembra aver portato a frequenti oscillazioni di vicinanza e distanziamento delle figure di accudimento.

Tutti gli orari, le routines quotidiane, sembravano alterate, sembrava non esserci un tempo, tutto passava apparentemente nell’identico.

I genitori sia dei piccoli, che degli adolescenti descrivono giornate che pongono difficoltà già dall’inizio, pertanto, mi sembrava utile con loro organizzare un tempo, una ritualità, per mantenere vivo il campo e la relazione, per contenere e cercare di evitare crisi di rabbia o reazioni violente all’interno della giornata.

In particolar modo vorrei proporre alcuni passaggi clinici, per narrare le trasformazioni emotive che si sono avute durante la quarantena in un piccolo paziente di 9 anni, che seguo in psicoterapia da ormai da 5 anni.

Al piccolo A. è morta la madre a causa di un tumore. Concordiamo con il padre di continuare a vederci tramite videochiamata, potrò spiegare ad A. solo per telefono questa nuova modalità di incontro.

Durante la prima videochiamata A. sembra essere spaesato, subito dopo corre per la stanza, poggia il cellulare su di un tavolo e nascondendosi e grida

“Dove sono? Dove sono? Mi vedi? Io non ti vedo? Guardami! Cercami! Mi sono nascosto, cucù!

Le prime videochiamate erano dense d’angoscia, i vissuti intrusivi del nuovo setting prendevano forme diverse e durante le prime settimane di quarantena era difficile creare una pensabilità.

A. “Mi vedi? Io vedo solo un occhio, hai l’occhio grande, vedo solo il tuo occhio, un occhio!” grida terrorizzato! Sento un gran rumore, non riesco a pensare, non sento la sua voce e non vedo più il piccolo A. di fronte lo schermo.

Sostando in questi vissuti dirompenti gradualmente il bambino acquisisce fiducia nel nuovo modo di incontrarsi, percepisce la mia presenza anche in assenza di corporeità.

A.“ allora tu ci sei? Guarda ho fatto una casetta per la mamma, l’ho messa vicino alla sua foto, le ho preso pure i fiori”.

Sembra che riattualizzando il rito funebre, adesso sia possibile iniziare a pensare.

A. “Dove abitano le persone morte? Chi è morto?”

Sono tanti gli interrogativi e penso alle immagini che trasmettevano in televisione di quei corpi posti nei camion dell’esercito in cerca di sepoltura.

Durante i successivi incontri si tenta di creare una narrazione sul coronavirus:

A. “Ma cos’è il coronavirus? Non si vede, non si sente e non si tocca! È il re dei virus! Si chiama corona. Il coronavirus è uno Slenderman!”

Attraverso fenomeni mitopoietici A. tenta di creare una pensabilità condivisa, tenta di dare un nome al non senso.

Lo Slenderman è un personaggio senza volto, dalla sua schiena fuoriescono i tentacoli neri, solitamente sequestra bambini e adolescenti, ma non è raro che prenda di mira anche gli adulti.

Il coronavirus esaminato attraverso un microscopio elettronico ha una forma circolare dalla quale fuoriescono gli spuntoni che coprono la superficie esterna, formando una sorta di corona. Il virus usa questi spuntoni per attaccare la parete esterna di una cellula umana, la invade e si replica, creando un altro virus per contaminare le cellule circostanti. Ma il coronavirus ha un punto debole:

ha una membrana esterna che può essere distrutta da un comune detergente.

Più volte si è sentito dire che stiamo combattendo un nemico invisibile, così come ha detto Turi Sapienza durante un seminario, non è vero che è invisibile, lo si può vedere attraverso il microscopio ed il nostro microscopio come psicoterapeuti è la Psicoanalisi.

L’intrusività del nuovo setting, sembra essere stata trasformata in curiosità, il bambino scopre nuove forme di gioco mai comparse prima d’ora.

A. “ho trovato in giardino un gattino, era selvaggio, ma poi l’ho accarezzato, guarda ora ti faccio vedere la mia stanza, questa è la mia stanzetta, questo il salone, guarda qua c’è la nonna, sta male”.

Penso che forse siamo riusciti ad addomesticare qualche pensiero selvaggio, siamo riusciti a prenderci cura di alcune parti dolenti.

Durante l’ultimo incontro il bambino racconta d’aver fatto 39 disegni, uno per ogni giorno di quarantena, ma manca il quarantesimo, l’ultimo.

A. “ non so che fare, cosa posso fare? Ho finito le idee, poi li porto da te e li mettiamo nella mia carpetta!”.

Sembra che il piccolo A. abbia accolto il gioco delle regole, il gioco in cui tutti, grandi e piccini imparavamo ad abitare l’ignoto, a provar fiducia nell’attesa.
 

Bibliografia

Bertolini, G. (2009), Social dreaming: intervista a Claudio Neri, Quaderni di Psicologia, Analisi Transazionale e Scienze Umane, 51, 82-90. ISSN: 1592-8535.

Bion W.R. (1970). Attenzione ed interpretazione, trad it. Roma: Armando, 1973.

Freud S. (1916). Lettera a Lou Salomè. OSF Torino: Bollati Boringhieri.

Lemma, A., & Caparrotta, L. (Eds.). (2013). Psychoanalysis in the Technoculture Era (1st ed.). Routledge.

Scharff, J. S. (Ed.). (2013). Psychoanalysis online: Mental health, teletherapy, and training. Karnac Books.





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Il presente lavoro è stato proposto nel 2020 durante la tavola rotonda che si è tenuta presso l’Istituto Italiano di Psicoanalisi di Gruppo (I.I.P.G.) della sede di Catania.

«Io so che […] debbo accecarmi artificialmente per poter dirigere tutta la luce su un punto oscuro.» (Freud S., 1916)

L’emergenza sanitaria del Covid-19 ha portato notevoli cambiamenti anche nel setting terapeutico in età evolutiva, durante la quarantena ci siamo incontrati in un altrove, non sempre ben definito, ma alle volte co(n)-fusivo. Basti pensare ai personaggi precedentemente solo narrati, disegnati, sognati o messi in scena attraverso il gioco, ma che adesso prendono forma nel reale, intrudendo alle volte nel campo.

Durante i primi giorni di quarantena sembrava di essere posti di fronte la Sfinge che pone domande e interroga sulla natura umana. Gli enigmi erano molteplici ed è stato difficile navigare in mari prima d’ora mai esplorati, con non poca fatica abbiamo cercato di pensare sotto bombardamento emotivo.

Il lavoro terapeutico è stato caratterizzato dal sostare nell’incertezza, “attraverso i misteri e i dubbi, senza lasciarsi andare ad una agitata ricerca di fatti e ragioni”(Bion, 1970). Così Bion nel 1970 in Attenzione ed interpretazione, riprende il concetto di capacità negativa, proposto dal poeta romantico John Keats nel 1817.

Bion (1970) afferma che l’analista deve imparare ad osservare, ascoltare, cercare di capire ciò che il paziente gli sta comunicando, ma soprattutto dovrebbe anche imparare a “non capire”, nel senso che è questo non capire che permette all’analista di non dare prematuramente forma a ciò che sta evolvendo nel campo analitico (Neri, 2009).

Pertanto, quando si parla di capacità, si intende una qualità, uno spazio, uno stato potenziale; negativa perché non si traduce in azione, ma al contrario, nell’astenersi dal fare.

Come terapeuta che lavora anche con bambini, adolescenti e le loro famiglie, mi sono interrogata sul come poter continuare il processo terapeutico. Sapendo che per alcuni piccoli sarebbe stato molto difficile poter proporre la modalità online. Per me è stata un’esperienza pionieristica, poiché non esistono molti lavori sull’argomento (.Scharff, J. S., 2013; Lemma, A., & Caparrotta, L. 2013). Nonostante ciò, ho cercato di attenermi al setting proposto precedentemente, cercando di offrire una continuità delle cure, tentando di trovare nuove pensabilità ed apprendere dall’esperienza.

Pertanto, gli incontri si mantenevano costanti settimanalmente, allo stesso giorno e allo stesso orario, tuttavia, il setting ha subito dei cambiamenti bruschi e repentini, soprattutto i più piccoli ne hanno sentito la violenza, l’ombra dello tsunami che faceva rivivere prepotentemente traumi relazionali, dovuti ad esperienze di perdita precoce.

Lavorare con i bambini significa anche prendersi cura dei loro genitori, in questo periodo in particolar modo. Infatti, i caregiver spesso si sentivano ostaggio dei loro figli:

“Dott.ssa non posso fare niente ci sono richieste continue che non riesco a gestire, sono stanca anche io”.

I genitori lamentavano la difficoltà di trovare spazi propri, si sono sentiti privi di contenimento, sembra essere venuto meno quel contenitore che era offerto anche dalle strutture esterne: come la scuola o i centri sportivi.

Si sono sentiti catapultati in ruoli spesso difficili da gestire, che creava loro confusione poiché tutto sembrava co-fuso. Il genitore era l’insegnante, il pedagogista, l’allenatore, il cuoco. Questo sembra aver portato a frequenti oscillazioni di vicinanza e distanziamento delle figure di accudimento.

Tutti gli orari, le routines quotidiane, sembravano alterate, sembrava non esserci un tempo, tutto passava apparentemente nell’identico.

I genitori sia dei piccoli, che degli adolescenti descrivono giornate che pongono difficoltà già dall’inizio, pertanto, mi sembrava utile con loro organizzare un tempo, una ritualità, per mantenere vivo il campo e la relazione, per contenere e cercare di evitare crisi di rabbia o reazioni violente all’interno della giornata.

In particolar modo vorrei proporre alcuni passaggi clinici, per narrare le trasformazioni emotive che si sono avute durante la quarantena in un piccolo paziente di 9 anni, che seguo in psicoterapia da ormai da 5 anni.

Al piccolo A. è morta la madre a causa di un tumore. Concordiamo con il padre di continuare a vederci tramite videochiamata, potrò spiegare ad A. solo per telefono questa nuova modalità di incontro.

Durante la prima videochiamata A. sembra essere spaesato, subito dopo corre per la stanza, poggia il cellulare su di un tavolo e nascondendosi e grida

“Dove sono? Dove sono? Mi vedi? Io non ti vedo? Guardami! Cercami! Mi sono nascosto, cucù!

Le prime videochiamate erano dense d’angoscia, i vissuti intrusivi del nuovo setting prendevano forme diverse e durante le prime settimane di quarantena era difficile creare una pensabilità.

A. “Mi vedi? Io vedo solo un occhio, hai l’occhio grande, vedo solo il tuo occhio, un occhio!” grida terrorizzato! Sento un gran rumore, non riesco a pensare, non sento la sua voce e non vedo più il piccolo A. di fronte lo schermo.

Sostando in questi vissuti dirompenti gradualmente il bambino acquisisce fiducia nel nuovo modo di incontrarsi, percepisce la mia presenza anche in assenza di corporeità.

A.“ allora tu ci sei? Guarda ho fatto una casetta per la mamma, l’ho messa vicino alla sua foto, le ho preso pure i fiori”.

Sembra che riattualizzando il rito funebre, adesso sia possibile iniziare a pensare.

A. “Dove abitano le persone morte? Chi è morto?”

Sono tanti gli interrogativi e penso alle immagini che trasmettevano in televisione di quei corpi posti nei camion dell’esercito in cerca di sepoltura.

Durante i successivi incontri si tenta di creare una narrazione sul coronavirus:

A. “Ma cos’è il coronavirus? Non si vede, non si sente e non si tocca! È il re dei virus! Si chiama corona. Il coronavirus è uno Slenderman!”

Attraverso fenomeni mitopoietici A. tenta di creare una pensabilità condivisa, tenta di dare un nome al non senso.

Lo Slenderman è un personaggio senza volto, dalla sua schiena fuoriescono i tentacoli neri, solitamente sequestra bambini e adolescenti, ma non è raro che prenda di mira anche gli adulti.

Il coronavirus esaminato attraverso un microscopio elettronico ha una forma circolare dalla quale fuoriescono gli spuntoni che coprono la superficie esterna, formando una sorta di corona. Il virus usa questi spuntoni per attaccare la parete esterna di una cellula umana, la invade e si replica, creando un altro virus per contaminare le cellule circostanti. Ma il coronavirus ha un punto debole:

ha una membrana esterna che può essere distrutta da un comune detergente.

Più volte si è sentito dire che stiamo combattendo un nemico invisibile, così come ha detto Turi Sapienza durante un seminario, non è vero che è invisibile, lo si può vedere attraverso il microscopio ed il nostro microscopio come psicoterapeuti è la Psicoanalisi.

L’intrusività del nuovo setting, sembra essere stata trasformata in curiosità, il bambino scopre nuove forme di gioco mai comparse prima d’ora.

A. “ho trovato in giardino un gattino, era selvaggio, ma poi l’ho accarezzato, guarda ora ti faccio vedere la mia stanza, questa è la mia stanzetta, questo il salone, guarda qua c’è la nonna, sta male”.

Penso che forse siamo riusciti ad addomesticare qualche pensiero selvaggio, siamo riusciti a prenderci cura di alcune parti dolenti.

Durante l’ultimo incontro il bambino racconta d’aver fatto 39 disegni, uno per ogni giorno di quarantena, ma manca il quarantesimo, l’ultimo.

A. “ non so che fare, cosa posso fare? Ho finito le idee, poi li porto da te e li mettiamo nella mia carpetta!”.

Sembra che il piccolo A. abbia accolto il gioco delle regole, il gioco in cui tutti, grandi e piccini imparavamo ad abitare l’ignoto, a provar fiducia nell’attesa.
 

Bibliografia

Bertolini, G. (2009), Social dreaming: intervista a Claudio Neri, Quaderni di Psicologia, Analisi Transazionale e Scienze Umane, 51, 82-90. ISSN: 1592-8535.

Bion W.R. (1970). Attenzione ed interpretazione, trad it. Roma: Armando, 1973.

Freud S. (1916). Lettera a Lou Salomè. OSF Torino: Bollati Boringhieri.

Lemma, A., & Caparrotta, L. (Eds.). (2013). Psychoanalysis in the Technoculture Era (1st ed.). Routledge.

Scharff, J. S. (Ed.). (2013). Psychoanalysis online: Mental health, teletherapy, and training. Karnac Books.






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